Caro professore del consiglio,

so che non leggerà mai questa lettera ma la mando lo stesso, come si faceva da giovincelli con le missive per le innamorate.

Lei ha recentemente pronunciato la frase se il paese non è pronto me ne vado. Mi permetta qualche appunto.

1)      lei dice il paese. Quale paese, professore? Quello del nord e delle grandi fabbriche che delocalizzano, quello del centro e dei distretti industriali delocalizzati, quello del sud e della mafia e ndrangheta delocalizzate? C’è una bella differenza, come nelle sue classi, professore, mica tutti son secchioni o bulli.

2)      lei dice pronto. Pronto a cosa, professore? Ad avere ingressi facilitati a lavori che non ci sono? O a perdere con più facilità quei pochi che ancora esistono? In fondo lei sa che pronta l’Italia non è stata mai (alla guerra, al fascismo, alle stragi di stato, alla lotta armata, a tangentopoli, a Berlusconi), perché se lo fosse stata avrebbe evitato davvero tanti guai. Ma questo non l’autorizza mica a parlare come D’Annunzio, o come un mio vecchio amico che dopo aver ottenuto una decina di voti alle elezioni comunali disse: “questa città non mi merita”. Eh già, siam tutti bravi così…

3)      lei dice me ne vado. Eh no, caro professore. Glielo concedo: lei è un meccanico chiamato ad aggiustare un cavallo, in assenza di veterinari. Ma se il cavallo è disposto a farsi toccare da lei, anche lei deve fare la sua parte, rinunciando agli attrezzi più pericolosi. Ci poteva pensare prima, non faccia le bizze come i ragazzini e usi la parola più della bacchetta, credo estromessa anche per legge dalle nostre scuole.

Caro professore, nella sua carica i sostantivi sono due, presidente e consiglio. Lasci un po’ di spazio anche alla seconda.

Suo ossequioso

Pamarasca