La grande sala – una trentina di tavoli, quattro occupati. Uno, da più di una persona. Buonasera, Buonasera, Sono solo, prego, si accomodi. Va bene qui? Benissimo, grazie. Sedie come troni in miniatura, stoffa rossa decorata, ciotole che teniamo uguali da qualche parte a casa. Ha deciso? Involtini primavera, ravioli al vapore, e spaghetti alla soia con carne, grazie. Da bere? Un quarto di vino bianco, anzi no. Una birra cinese. Tsingtao.
C’è, nell’ultimo libro di Emidio Clementi, un passaggio straordinario. Un anziano direttore d’orchestra osserva attraverso il finestrino dell’auto che lo porta in albergo i resti della modernità che ha illuso il genere umano: edifici ormai cadenti, utensili che assicuravano il futuro abbandonati come cessi di Duchamp, scelte urbanistiche che regalavano fiducia depresse e demolite dall’usura. Una cosa breve, di qualche anno, il cui fallimento ha costretto l’umanità a ritrarsi in fretta nel guscio della nostalgia, come una lumaca spaventata. Qualche sera fa, proprio Emidio, in un locale nel quale ci trovavamo dopo la sua presentazione milanese, si guarda attorno. Ci sono vecchi tavoli da cucina, bicchieri anni sessanta, il bancone da bar di partigiani, varia roba vintage e tanti ragazzini. Prendiamo una grappa. “Ecco” mi fa “mia madre qui direbbe ‘ma cos’è tutto questo vecchiume?’ perché fino alla sua generazione non sarebbe stato possibile tutto questo guardarsi indietro.” Siamo noi, invece, a essere nati già nostalgici, figli del fallimento del moderno. Malinconici in partenza.
Dice la gente: l’apocalisse. Vanno di moda i libri apocalittici. Questi uomini che si trovano a combattere per la poca acqua rimasta, si sbranano, versioni sommesse e verosimili – in fondo – di Mad Max. Metafore, e futuri immaginari. L’apocalisse d’altronde è tornata in auge dappertutto, i toni savonaroliani dei politici, i film sulla fine del mondo, le invasioni, i virus, i naufraghi che si arrabattano nei telefilm. Ma stavolta il ritorno dell’apocalisse come leith motiv della narrazione nasconde una speranza e non, come fu decenni addietro, ai tempi della guerra fredda, una paura. La cerchiamo, la vogliamo, la aneliamo: se non siamo capaci di sognare un futuro splendente, almeno ci sia data – ma da chi? – una splendente fine.
Rimarrà però un sogno quello di essere partigiani su monti infestati dalla cattiveria, di combattere su un ring di ruderi, di addormentarsi stanchi i piedi avvolti negli stracci impugnando una pistola rimediata.
L’apocalisse d’oggi è nella decadenza del ristorante cinese nel quale sono entrato, da solo, mentre Monica è a un convegno. Mi piacciono i ristoranti cinesi. A Milano vivevo dietro via Sarpi e mangiavo spesso nella bettola sotto casa. Ma anche in un ristorante di lusso, pechinese, dove riuscii a trascinare mio padre – non lo dimenticherò mai – che apprezzò oltre misura un pollo in crosta guarnito con l’ananas, ai tempi una vera novità. L’agrodolce s’affacciava nella nostra vita. Tornato ad Ancona, un ristorante cinese aprì sopra il Thermos, al posto di un circolo misterioso nel quale avevo passato, davanti ai videogiochi, le mattine di seghino (poche, ero un vigliacco). Al ristorante cinese mandai numerosi musicisti a mangiare, e spesso andavo anche io, quasi sempre solo, nell’ora di chiusura tra l’aperitivo e la nottata. Una volta difesi il padrone da alcuni teppisti. Poi prese fuoco il ristorante, o almeno ci provò. Venne fuori del fumo dalla cappa, arrivarono i vigili e credo che il proprietario si sia beccato una denuncia. Chiuse, comunque.
La passione per i ristoranti cinesi è una faccenda tutta della mia generazione. Una madeleine postmoderna. E difatti proprio Emidio, qualche anno fa, mi porta nel suo ristorante cinese preferito, nel centro di Bologna. Un corridoio stretto, la tv, qualche avventore solitario. “Piace molto a Leo”, mi dice. Parliamo con grande confidenza: nei ristoranti cinesi il tempo si ferma nel preciso istante in cui l’esotico e il sogno hanno ancora cittadinanza e l’esperienza non è ridotta a mero atto di consumo. Il tempo di quando eravamo ragazzi – la prima generazione non-cresciuta della storia.
Noi, così nostalgici di nostro, ci sguazziamo nella soia.
Oggi la ragazza che mi serve è bionda, ha lineamenti occidentali e parla l’italiano come una cinese, fa uno strano effetto. Mi guardo attorno. La prima volta venni con alcuni amici, era l’inizio degli anni Novanta. Dalle statue posticce che fiancheggiano la scalinata che unisce le due sale usciva dell’acqua gorgheggiante.C’erano luci intermittenti, e pesci colorati nell’acquario. La musica cinese sembrava persino bella e i bambini giocavano con i vassoi rotanti dei tavoli più grandi. Il cibo era lo stesso. L’odore di fritto, e di salse e precotto. Sembra lo stesso anche il separé davanti alla cucina, dal quale ora spunta il capo di una giovane cameriera, intenta a sbadigliare vistosamente. Poi mi vede, che la guardo, e sfila via.
E’ tutta qui l’apocalisse: nei ristoranti cinesi in cui si va da soli per gustare sulla punta del cucchiaio una salsa piccante che sembra rimasta ad aspettarci, davanti a statue colossali di dragoni dagli occhi spenti, mentre il figlio del padrone legge la Gazzetta e nell’acquario boccheggiano due carpe enormi.
Forse, hanno la grappa alla rosa.
L’immagine è tratta dal Tumblr de La ragione delle Mani