Oggi è il giorno della memoria.
Quando sono stato a Dachau avevo 14 anni. La sorella grande di Marco e il fidanzato ci portarono in Germania.
Ci andammo in macchina.
Chiedemmo informazioni lì dove le strade sembravano rette infinite. Approfittando della nostra terribile pronuncia, i tedeschi scuotevano la testa. Non sapevano. Dov’è che stiamo andando? Che cercate, non capisco.
Dachau. Il campo di concentramento.
Non lo conosciamo.
Alla fine ci arrivammo, aggirando la vergogna scritta sulle loro facce.
Era l’inizio degli anni Ottanta. C’era ancora il muro. La guerra fredda. Le colpe. I vincitori e i vinti.
Il percorso all’interno del campo era semplice. Disarmante. Muto. Fatta eccezione per le voci degli internati che sentivo dentro. Come se la mia testa fosse uno scantinato in cui s’erano nascosti tutti un’altra volta.
C’erano le incisioni sul legno. Nomi, frasi. Sentivo nelle orecchie le assi farsi schegge. Con quale oggetto sono state fatte, quelle scritte? Un cucchiaio? Un tacco di stivale?
Il percorso passava per le camerate.
Poi fuori, poi di nuovo dentro. Nella camera a gas. Cui arrivammo attraverso una specie di vialetto che mi ricordò la casa di mio zio in campagna.
Nella camera a gas non c’era più odore di morto, né sentivo le voci come nelle camerate. Chinammo le teste e guardammo dentro. E’ proprio piccola, dissi. Sì, rispose qualcuno. Troppo piccola per immaginarla. Se si pensa a masse di persone, secche e moribonde ma persone, in una stanza, si immagina una stanza grande. E’ inevitabile.
Questa, invece, è piccola.
Un comodino.
Bisogna vederla per capire.
Vedemmo un forno come quello per le pizze.
Era una giornata umida. C’era uno scarso orizzonte e sembrava di stare dentro una risaia. Recintata.
Vedemmo il cortile dove i nazisti facevano tiro a segno sulla gente.
Le stanze dove facevano esperimenti scientifici sui prigionieri.
Era tutto così piccolo. Così burocratico. Ogni spazio somigliava alla squallida, innocua stanza di un impiegato.
Era tutto così piccolo.
Il male non è quel mostro enorme che ci aspettiamo.
E’ una talpa buffa, che scava buchi e corridoi nella gente, nei popoli e nella storia. Che timbra, riempie scartoffie, compila documenti di trasporto. Fa il suo lavoro.
Alla fine scrissi qualcosa sull’albo dei visitatori. Come quelli degli alberghi. Non ricordo cosa scrissi.
La sola cosa che non ricordo di quel giorno è quel che feci, e scrissi.
Non c’era spazio per me nei miei pensieri.
Pamarasca
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