Durante l’incontro di Narrancona, organizzato presso il Raval alla Mole  da Valerio Cuccaroni e curato da me e Beniamino Cavalli, con la partecipazione straordinaria di Marco Dominici e di una sua bellissima poesia, tra i brani scelti c’era un breve estratto dal mio prossimo romanzo. Lo avevamo scelto perché descriveva, in un certo senso, uno dei tesori del nostro territorio, Mezzavalle. Visto che l’ho letto a tutta la gente che c’era, posso anche postarlo qui, immagino 🙂 . Almeno non si sente la R moscia…

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Per scendere a Mezzavalle, un cieco avrebbe bisogno di aiuto. Il sentiero cui si aggrappano i nostri scoli è ripido e sassoso, orlato di piante che in alcuni tratti lo coprono per intero. La staccionata è solida, la controlliamo di frequente perché è pericoloso qui cadere, e il cieco tenuto per la mano da qualcuno che conosca la strada appoggiandosi apprezzerebbe la qualità del legno che Enrico acquista, senza badare a spese, dai migliori fornitori. A scendere potrebbe aiutarlo Anna, la ragazza minuta che assiste i ragazzi down in un angolo di spiaggia, nei giorni pari della settimana. Gli terrebbe il braccio sollevato all’altezza del collo e troverebbe una battuta ad ogni inciampo, perché è questa la sua forza e le vogliono bene tutti per il suo modo di scherzare, ad Anna.
Il cieco scenderebbe i primi tratti senza sapere che ad ogni curva stretta e polverosa si spalanca un po’ di mare in più, per chi ha gli occhi è come respirare con la vista. Ma gli arriverebbe, dalla terza svolta, in faccia il sale delle onde e pian piano, scendendo, il loro rotolare indisturbate. Allora passerebbe dalla lavanda che si trova in cima al viottolo di terra alle alghe lasciate dalla corrente sulla spiaggia e avrebbe probabilmente voglia di lasciarsi scivolare giù, sin dentro al mare.

Enrico mi mise a Mezzavalle per un po’. Dovevo svuotare i cestini e raccogliere i resti trascinati qui dal mare. Mi portai a casa il pupetto di un biliardino jugoslavo con la maglia della stella rossa.
Per pulire la spiaggia la percorrevo in lunghezza, due chilometri di corridoio tra le pendici del monte e il mare che lo cancella ad ogni mareggiata, certi giorni non sai dove camminare. Lunga così, Mezzavalle sembra sempre vuota, le persone si confondono coi tronchi e nessuno si permette di piantare un ombrellone.
Nei giorni pari mi fermavo un po’ con Anna e i suoi ragazzi. Li faceva passeggiare a piedi nudi poi li convinceva con delicatezza a fare gli esercizi: inspirare, espirare, braccia in alto, petto in fuori, lo sentite il mare, e tutto questo sale?
Accennavano passi di danza. Ridevano.
Li guardavo piroettare goffi ma eleganti sullo sfondo dell’orizzonte tutt’altro che infinito: imitavano la loro piccola istruttrice che, ballerina per davvero, scavava invano con la punta dei piedi cercando appigli tra la sabbia e i sassolini.
–    Buongiorno Anna, buongiorno ragazzi – dicevo.
–    Buongiorno – loro in coro – ciao.
Stavo impalato per un po’ così, nella mano un grande sacco nero aperto dal quale ciondolavano schifezze, soprattutto alghe, gusci di cozze, bottiglie mangiucchiate dai pesci e lattine corrose dalle onde. Il vento è più forte che nel resto della baia, i capelli di tutti sono sempre spettinati. I ragazzi di Anna li portavano corti, qualcuno con la riga in mezzo, guardavano la maestra di danza con concentrazione assoluta: ogni suo passo, la piega del polso, gli scarti del sorriso si infilavano nei loro occhi sghembi, troppo vicini o troppo lontani, troppo grandi o troppo stretti. Anormali. Così preso dalla lezione di ballo sulla spiaggia, qualche volta uno di loro non si accorgeva delle onde basse che lambivano la sabbia e finiva dentro il mare con un piede.
– Iiik! – lanciava un gridolino e saltava in avanti come l’avesse punto uno scorpione ma poi, nei minuti successivi, guardava indietro e fingeva di essere costretto ad arretrare, cercando di farsi di nuovo sorprendere dal mare.
–    Buongiorno – ripetevo e me ne andavo, chinandomi a raccogliere una lattina  o un ramo.
Di rami ce n’erano molti, a Mezzavalle. In primavera, anticipando la stagione, Enrico faceva scendere una ruspa piccola abbastanza da passare attraverso lo stradello irto e con quella caricava tutti i tronchi che popolavano la spiaggia. Il mare gli aveva leccato via la corteccia, erano bianchi e ricurvi, modellati, non avevano opposto resistenza: lavorando il corpo ai tronchi il mare li conserva.
Spezzarne i rami è doloroso: gettati sulla terraferma dalle mareggiate dopo mesi o decenni di sospensione in acqua, sono corpi abbandonati da trattare con riguardo e ti sembra possano scappare fuori tendini, muscoli ed organi vitali. Ad ogni crac Fausto rabbrividiva un po’.
–    Odio fare questo. – mi diceva.
Chiedono solo d’essere lasciati in pace ad asciugare, incenerire, sgretolarsi e poi volare via. Non gliene diamo il tempo.
–    Ma sono secchi non vedi? – lo tranquillizzavo.
–    Secchi, sì. Sai cosa mi ricordano dopo le mareggiate?
–    Cosa?
–    Quei video sui lager, sui campi di concentramento. Le fosse e i soldati che ci buttano la gente pelle e ossa, i cadaveri gassati. Secchi.
–    Grazie tanto – gli rispondevo mollando la presa dal tronco che stavo facendo a pezzi.
Oltre Anna e i suoi ragazzi andavo avanti, dopo aver spostato verso la falesia pezzi di tronco troppo grandi, che non avrei potuto portare via senza la motosega appesa al rimorchio del trattore. Continuavo a raccogliere robaccia. La carta, la plastica, le cicche di sigarette ovunque, bottiglie d’acqua piene d’alghe. Qua e là minuscoli granchi scappavano via dalle mie dita. Alle mie spalle sentivo ancora Anna:
–    Eeee Ssssuuuu!! Bravo Gioacchino, vedi che ci riesci, Eeeee Sssssuuuu, solleva quel ginocchio Susi, dai.
Il vento si portava via la voce e i risolini timidi degli allievi che roteavano grassi lì sulla battigia. Il vento si portava via i bicchieri di plastica lacerati che il mare recapitava qui da chissà dove, un aperitivo in terrazza ad Istanbul, una festa di famiglia sulla lunga diamantina costa di Sarande.