Il fatto è che non si vedono spesso persone felici per la soddisfazione altrui. Ad esempio un commerciante che sia riuscito a trovare una merce speciale – non importa se economica o cara – per un cliente che da anni la cercava. Ma anche solo la rivista giusta, il pantalone della taglia esatta. Un vino, un cibo, un sigaro, un disco, un libro. L’attenzione, invece, è rivolta da entrambe le parti all’oggetto-merce. Su di esso il venditore si concentra. Quello il cliente crede di desiderare. Il primo considera il guadagno che farà dalla vendita dell’oggetto. Il secondo il consumo che ne farà.
Il negoziante, il barista, il ristoratore contano cassa ancora prima di verificare la soddisfazione del cliente. Il dipendente continua, dopo anni, a pensare che si tratti di un lavoro temporaneo – oppure svolge davvero un lavoro temporaneo, uno stage, un co.co.co. e non nutre particolare desiderio di imparare quel lavoro. Che poi, ogni lavoro è lo stesso: vendere una cosa.
Così, non sono le persone a parlare delle cose, ma è il contrario. L’oggetto venduto/pagato/acquistato è il linguaggio che viene utilizzato. Diviene idioma comune tra due persone che pensano di comprendersi grazie ad esso. Tutto si riduce al minimo. Il lavoro non conta altro che il denaro che riesce a procurare per comprare merce.
L’oggetto è la bottiglia che si passa di mano in mano un gruppo di ubriachi. Credono di dialogare, di parlare, ma è l’alcol a dire quel che devono pensare.
L’essere legati esclusivamente alla propria capacità di incasso e di consumo ci scioglie dal vincolo – e dal piacere – della soddisfazione altrui. Chi vende non è interessato al compratore, se non per una fidelizzazione futura. Chi acquista non ha bisogno d’altro che della merce. Il resto è una perdita di tempo. Il tempo è denaro o, meglio, il tempo è uno spazio più o meno ampio all’interno del quale è possibile consumare qualche altra cosa. Il tempo è consumo.
Ogni trasformazione sociale è impossibile, a meno che non si tratti di una trasformazione economica nel senso della libertà maggiore di consumo. Essa è impossibile perché l’altro – il cui giudizio paradossalmente si teme sempre più, poiché siam diventati merce e non vogliamo essere deprezzati – non interessa a noi né noi a lui. Il rimanere società è una semplice conseguenza della continua necessità di scambiarsi merci. Le merci sono come esseri senzienti e parlanti che edificano all’interno dei nostri spazi urbani e occupano le nostre case. Il piacere dell’altro non conta nulla e di conseguenza un ideale teorico (uguaglianza, libertà, fraternità) non ha senso. L’uguaglianza è desiderata da chi può leggerne l’effetto sul viso dell’altro. E così la libertà. Per non parlare della fraternità. Ogni cosa si riduce a possesso. Persino l’amore. Persino la filiazione è possesso. Il figlio è sempre più “mio” e sempre meno di se stesso. Tanto meno appartiene a una società non riconosciuta. Così consumiamo le persone, non solo quelle lontane, ma quelle più vicine.
Al di là del sistema politico ed economico utilizzato, la convinzione di poter essere felici individualmente e la pretesa di dover stare bene anzitutto con noi stessi – strana mescolanza di qualunquismo, pensiero hippie, psicoterapia, totalitarismo, individualismo, religione etc. – ci rende immuni da un cambiamento reale. La letteratura diceva di non chiedersi per chi suonava la campana, ma la letteratura è un bene di consumo e come tale trasmette verità opinabili, alla pari delle altre arti. Di breve durata. Così, le splendide parole di John Donne contano meno di niente, valgono sì e no per un post su facebook quando ci si sente buoni:
Nessun uomo è un’Isola,
intero in se stesso.
Ogni uomo è un pezzo del Continente,
una parte della Terra.
Se una Zolla viene portata via dall’onda del Mare,
la Terra ne è diminuita,
come se un Promontorio fosse stato al suo posto,
o una Magione amica o la tua stessa Casa.
Ogni morte d’uomo mi diminusce,
perchè io partecipo all’Umanità.
E così non mandare mai a chiedere per chi suona la Campana:
Essa suona per te.
Gli altri finiscono per essere funzioni della nostra soddisfazione. Ma è un paradosso, poiché non possiamo nel profondo essere soddisfatti senza che lo siano gli altri. E’ questa la premessa essenziale ad un vero cambiamento, la capacità di godere della felicità altrui e di riconoscere doloroso l’altrui male. E poiché la felicità resta una chimera, la crescita della società e la sua trasformazione sono indissolubilmente legate alla sua ricerca collettiva. Questa si chiama politica.
Sarebbe già un inizio incontrare un venditore che sia felice della gioia del cliente, oltre che del proprio incasso. O che si rifiuti di vendergli in eccesso. Questa si direbbe un’utopia.
Pamarasca
Le meravigliose fotografie sono di Lee Materazzi