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Il caso di Stefano Cucchi. Le giuste e belle parole di Manconi. Il brano duro, asciutto e alto di Erri De Luca. Il sarcasmo ferito di Ilaria Cucchi, la sorella. Soprattutto, il senso di ineluttabile che cala come un’ombra su una nazione intera, allenata a un’idea di potere che esclude, reclude, punisce.

Il senso di sicurezza di una popolazione inebetita dal timore dell’altro e diverso. Molti anni fa, il solito Baumann sottolineava come la funzione dello Stato si fosse ridotta ormai ai compiti di sicurezza e di protezione degli individui – spogliato di valenze economiche, sociali, simboliche, lo Stato doveva occuparsi del corpo dei cittadini, organizzandosi per preservarne il ruolo di consumatore.  Un paradosso, poiché scompare in questo modo il senso del termine stesso: cittadino. Resta l’individuo-consumatore globale circondato da una rete che protegge lui, e la sua paypal. Non è un caso, credo, se il bisogno di comunità si sia spostato entro i confini del virtuale, lì dove sembra (sembra) lontano il rischio di coinvolgimento e ferimento del corpo fisico dell’individuo.

E’ questa la filosofia che autorizza e anzi sancisce l’utilizzo della violenza da parte del potere e lo rende quasi naturale. Ineluttabile. Oggi ci offende meno un morto pestato nelle carceri che un’incursione della censura sul web.

E’ questa anche  la filosofia che ci costringe a sottolineare che Stefano Cucchi non aveva droga nelle vene, che aveva un lavoro, che si curava e sperava. A cercare cioè  in lui quelle qualità che ce lo fanno sentire meno diverso, meno minaccioso. Noi che chiediamo giustizia riusciamo a farlo meglio, se ci convinciamo della sua redenzione – prossima, o avvenuta. Che era un bravo ragazzo, uno che presto avremmo incontrato al centro commerciale, in coda, con in mano, come noi, la sua carta prepagata.

Ma questo a ben vedere non significa niente, perché chi uccide una persona resta un assassino, a prescindere dalla vittima.

E chi viene ucciso è morto. A prescindere dalla sua vita.