Ero ad una festa. La festa era di un amico e come spesso capitava in quegli anni avevo dato una mano con l’impianto, le casse, i cavi. Accanto alla consolle, c’era una tv.
–    Tu ci vai a Genova? – qualche giorno prima
–    Mi piacerebbe, ma sai… e poi… mica si può fare tutto
–    Già
Avevo dato. I cordoni, i cortei, le fughe, le notti da attacchino con la colla fatta a mano, le riunioni. I pestaggi nella metro ordinati dal prefetto.

Ero a una festa. Bevevo vino bianco, c’erano le cozze.
E una tv. Chissà perché.
La notizia della morte di Carlo Giuliani passò proprio di lì. Dalla tv: silenzio, commenti a bassa voce. Incertezza del dj. Mi venne da vomitare, ma non lo feci. Faccio raramente quel che sento. Poi, però, salì.
La rabbia giusta.
Uscii.

Arrivai a Genova di prima mattina. Mi feci a piedi, solo, il lungomare verso lo stadio in cui ci si riuniva. Scogli piatti, costumi, poliziotti. Sale. Incontrai un amico che mi prestò dei soldi: ero partito senza, dalla festa.

L’architettura di Genova era sorvegliata da fucili, elmetti, droghe sintetiche in pupille strette. L’avevano truccata da cattiva, mentre i suoi abitanti cercavano di toglierle quel ghigno dimostrandosi ospitali e solidali. Ma era tardi.

L’aria della morte aveva cristallizzato gli edifici. Tutti i palazzi di tutte le strade e delle piazze trattenevano il respiro: quello di Genova era un petto gonfio e immobile, un teatro di ghiaccio.
Vidi con i miei occhi i finti manifestanti scendere dai cellulari della polizia, mentre una parte del corteo cercava di cantare via la morte del ragazzo dalla strada.
Vidi una città armata, costretta ad avere paura di se stessa.
Sentii la rabbia giusta.

Successero cose.

Alla stazione c’erano controlli. Salii sul primo treno che vidi: era diretto a Milano.

–    Pronto
Monica mi risponde stupita. Non ci sentiamo da anni. Le spiego che vengo da Genova. Che sono salito sul primo treno per Milano.
–    Aspettare qui in stazione non mi sembrava il caso
Mi dice che Certo, posso dormire da loro.
Mangiamo pizza al taglio in via Farini. Mi rimbocca le coperte. Monica era al Ponte con me. La chiamavano la bell’anarchica: che strazio, poveretta.
Nel frattempo, la Diaz.

Seppi più tardi che altri come me, amici della mia generazione, avevano rinunciato ad andare a Genova ma poi, saputa la notizia della morte del ragazzo, erano partiti all’improvviso, senza spegnere le luci di casa, lasciando a bocca asciutta il gatto.

Penso spesso ad un palazzo di Genova in particolare. Era alto, marrone, con balconi stile impero. Era un bel palazzo, con tante finestre, e sembrava voler espandersi, inspirare e allargare le braccia, contenere tutta la città in un disperato tentativo di proteggerla dal male.

Penso spesso a quel ragazzo morto.

Pamarasca