Tutto quello che riusciamo a fare è dire che il web è rivoluzionario. Democratico. Persino libertario. Ma le notizie ci sfuggono di mano.

Come si chiamava quella ragazza che ha fatto lo sciopero della fame dopo 7 anni di precariato in un giornale? E quando era la mostra alla quale dicevamo di volere andare (tanto non ci andiamo)? E che mostra era poi? Che titolo aveva il libro del quale ho letto quella bella recensione? Quanto hai detto che guadagna Marchionne? In che comune s’è verificato quell’atto di razzismo? Il terremoto era in Cile o in Polinesia? O in tutti e due? Ma quanto è lungo questo pezzo, non poteva farlo un po’ più corto?

Proviamo a fare un test. Senza copiare. Cosa ricordiamo? Cosa abbiamo dato al nostro cervello da elaborare rispettandone i tempi?

La notizia è diventata un bene di consumo. Un abito, l’equivalente di un vestito da indossare.
Ce le ammiriamo, ce le invidiamo, corriamo ad acquistarle, ce le scambiamo.
Senza nemmeno sapere di che stoffa sono fatte.

Il fatto è che il consumismo ci aveva già mangiato il cervello prima. E Internet non è un neurochirurgo.

Il fatto è che il mondo è complicato, e ci illudiamo di farlo semplice così, diventando scivolosi. E’ più facile consumare una cosa, che provare a capirla.

La strada è giusta. Le scarpe sbagliate.

Pamarasca