Era così. All’università il manifesto lo portavano nella tasca posteriore in 10 su 1000. E di quei dieci lo leggeva uno, gli altri lo utilizzavano in vario modo, o non lo utilizzavano affatto. Inutile girarci attorno. Tra l’altro era moscio e non morivano neppure le mosche se ce le acchiappavi.
Ci scriveva tutta gente tosta. Il mio preferito era Pintor, che dal giornale passai ai libri e che Servabo lo lessi in treno e piansi. Gli articoli erano pesantissimi. Non una battuta, non una facezia. Tu stavi nel corridoio dell’istituto di filosofia teoretica aspettando il tuo turno per l’esame e lo leggevi, così poi tutto, anche l’esame, ti sembrava una cazzata. Dopo tre manifesti chiacchierare con Sini o con Giorello era come bere un caffelatte.
Io lo leggevo, in quegli anni, anche se militavo da anarchico al ponte della ghisolfa e i comunisti, tranne Alberto Ibba, Luigi Pestalozza e pochi altri, mi stavano un po’ sulle palle. Ebbi anche come professore Alessandro Conti, che ci scriveva d’arte e morì presto, agli esami faceva piangere le ragazzine bestemmiando in toscano e urlandoci in faccia, a ragione, l’ignoranza nostra.
Non è che lo leggessi proprio tutto. Ad esempio, Lucio lo leggeva dalla prima all’ultima riga, e Cesare ci faceva colazione come si trattasse di tv sorrisi. Avevo amicizie sovradimensionate, evidentemente.
Però lo leggevo. E poi, anche se non lo avessi letto allora, non riesco a immaginare l’Italia senza il manifesto. Non ha senso.
Da un pugno di mesi se n’è andato Luciano Magri e nel mio piccolo ne ho scritto qui.
Mo rischia di volare via dal finestrino del trabiccolo sul quale ci muoviamo pure il suo giornale. Per salvarlo, non bisogna essere suoi lettori, basta un poco d’amor proprio. Se non vi va di leggerlo, compratelo e incartateci del pesce.
Pamarasca