Ultimamente mio padre non è stato molto bene. Per questo, avendo a che fare con lui quotidianamente, mi sono sforzato di pensarlo in condizioni diverse da quelle attuali. Non che quelle attuali siano disastrose, ma ho cercato di individuare alcuni frammenti in qualche modo significativi nella mia memoria.
Purtroppo non era facile. L’evidenza delle sue condizioni attuali, la frequenza degli incontri ma anche il tempo che mi divideva da quei ricordi erano un mare nel quale a malapena riuscivo a fare un paio di bracciate e che mi separava dai momenti dei quali avevo ancora sentore. Momenti dei quali riuscivo a parlare ma che i miei sensi non riuscivano a recuperare.
Poi un mattino mi è venuto in mente di scriverli e via via che le mie dita battevano sui tasti – batto sempre troppo forte sui tasti, specie considerando che si tratta del mac di Monica – i miei sensi si aggrappavano sempre più certi al ricordo che mi ero messo in testa di raccontare. A richiamarlo così vivido, quasi presente, erano le sillabe infilate una dopo l’altra. Non cercavo la bellezza dell’espressione, ma solo la tangibilità del ricordo. Volevo toccarlo, sentire l’aria, le voci, i suoni e abbagliarmi della luce di campagna di quello specifico frammento.
E la cosa veniva facile. In un attimo sono finito lì, come un bambino delle fiabe. Tanto ne godevo che ho avuto la tentazione di allungare le descrizioni, indugiare sul foglio ma mi sono immediatamente reso conto che non avrebbe funzionato. I sensi si possono ingannare solo al presente. Così ho finito il mio frammento, e ne sono uscito pieno, i sensi sazi e una strana, allegra nostalgia sotto la pelle.
In questo modo ho capito che prima di tutto le parole non servono per dire le cose, ma per farle esistere. E che se con le parole si può ingannare, le parole non si possono ingannare.
E che sei hai le parole, hai tutto. Anche ciò che non puoi avere più.