Mi hanno portato in carcere. A vedere il Don Giovanni recitato dai detenuti per un pubblico di detenuti. Ho pensato, nelle ore successive, alla maniera di raccontare quell’esperienza: le mura, i cancelli, i girasole dipinti sul muro, il pubblico che scherza e si commuove, la concentrazione degli attori (bravissimi), i coriandoli di giornale, gli origami fatti dai detenuti in isolamento.Mille altre cose che mi piacerebbe tutti leggessero qui.

Non posso aggiungere molto altro al racconto di Simona, cuore del progetto, apparsa sul palco alla fine dello spettacolo e letteralmente abbracciata dalle voci dei presenti.

Alla fine, però, una cosa più di tutte mi ha colpito, in quella stanza stretta eppure enorme in cui si mescolavano le vite di fuori (nostre) e quelle di dentro (loro), le storie vere (davanti al palco) e quelle di fantasia (sul palco).

Questa cosa è lo sguardo degli attori al termine dello spettacolo. Non è facile spiegarlo. Dalla mia seggiolina marrone, le gambe a sbattere contro il margine del palco stesso, li ho guardati ed erano felici: lo spettacolo era andato bene, c’erano applausi, fischi, grida di incoraggiamento. La concentrazione svaporava e con essa l’adrenalina che in dosi massicce avevano consumato durante la recitazione. E in tutta quella soddisfazione di attori consumati, si intravedeva qualcosa d’altro (in uno più, in uno meno). C’era malinconia. Una malinconia profonda negli angoli del loro sguardi, e nel rilassamento dei nervi. Nel riprendere a respirare normalmente dopo il batticuore dovuto alla recitazione.

Ho pensato che lì fosse il segreto della giornata. La bellezza, e nel contempo la tristezza, del lavoro terminato, e fatto bene.

Era nei loro sguardi la malinconia di chi, dentro le mura di un carcere, per giorni e giorni è stato libero, o perlomeno più libero degli altri. La malinconia di chi, grazie ad una storia di fantasia, in qualche modo ha sublimato la carcerazione.

Quegli uomini erano nel contempo felici dello spettacolo appena terminato e tristi per la sua fine, per la conclusione di una magia. Faticosa, sofferta, tesa, ma pur sempre una magia.

Le storie danno libertà. Questo è quello che hanno provato sulla propria pelle, giorno dopo giorno, imparando e trasformando le battute, mettendo farina del proprio sacco nel copione del regista.

Le storie danno libertà dentro. E molto più liberi di tanti di noi sono stati loro, sul palco basso che sega le ginocchia della prima fila, per un lasso di tempo determinato che, però, potranno ricordare, estendere, allungare.

Nello sguardo finale e solitario di ognuno degli attori, c’era tutta la magia del teatro.

Grazie

pamarasca