Le parole, anche una sola. Le parole devono salvare – magari dolorosamente, ma salvare. Le parole, per quanto pesanti, devono attutire il peso di un’azione eventuale, come l’abbaio di un cane non si tradurrà sovente in morso.

Se un uomo decide di farla finita – per la miseria, per la vergogna, per una vita diversa da quella che avrebbe voluto e questa discrasia non regge più – tra il passaggio all’atto del togliersela, la vita, e il suo corpo, ecco ci sono le parole. I guantoni del pugile che evitano – non sempre, ma spesso – il collasso cardiocircolatorio l’incrinarsi delle ossa, la fatalità. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette… in piedi!

Ma quando l’atto – il suicidio – non investe una singola persona che non ha saputo – non ha potuto – infilarsi i guanti, o a cui nessuno li abbia legati, quei guanti, e invece investe due persone che tra di loro comunicano con le parole, che possono sperare grazie a quello che sanno dirsi, che possono comunicarsi il male e dunque, in qualche modo, allontanarlo, e nonostante questo si uccidono assieme, dopo averlo pensato, deciso, concertato.

Quando accade questo – non c’è nessuno che ci salvi. Insegnamoci di nuovo a parlare con coraggio e non con rabbia – con speranza e non con vergogna. Veliamo la finestra aperta sull’angoscia.