È morto Elio Pagliarani. Le librerie non si affanneranno ad esporre i suoi libri, come fanno di solito quando muore uno scrittore: le librerie per lo più non li hanno, i suoi libri. Immagino già i direttori di succursale della Mondadori, della Feltrinelli: “abbiamo qualcosa di Pagliarani?” “Chi?” “Pagliarani, quello che è morto” “Boh. Ora guardo. Come hai detto che si chiama?”.

La poesia, l’arte di temprare le parole e calibrarle su ragione e sentimento, di osservare con occhi differentemente ciechi, di cercare l’aldilà della normale comunicazione, non ha spazio al giorno d’oggi. I grandi poeti italiani cadono come massi da un monte direttamente in mare, senza far rumore. Elio Filippo Accrocca, Sanguineti, Zanzotto. Pagliarani.

Sarà ora di chiudere, amore,
che smetta di fare la guardia al cemento
tra piazza Tricolore e via Bellini,
di coprirmi la faccia col giornale
quando ferma la E, di attraversare
obliquo la tua strada, di patire
anche a passarci in treno
in fondo a viale Argonne
vicino alla tua casa.

Ad Ancona venne invitato da Luigi Socci e Marco Dominici per una delle prime edizioni de La punta delle lingua, festival di poesia che oggi gode di autorevolezza. Mangiammo assieme a lui da Anna la zozza, a Portonovo, le tagliatelle. Guardò il mare, il molo, il monte, le forme della cameriera.

La sua poesia era greve e leggera, somigliava alle operaie di fabbrica che sporche d’unto e nel frastuono delle macchine riescono comunque a rimanere donne.

Il volume con tutte le sue poesie non costa molto: acquistarlo e leggerlo è un atto di resistenza a un mondo che crede di poter fare a meno della poesia quando invece è il contrario esatto.

Pamarasca