Ho sempre cercato di mettere pace, rattoppare pezzi. Sin da piccolo.
Una volta, alle superiori, due miei compagni litigarono e si diedero appuntamento a Pietralacroce, in cima a un dosso polveroso dal quale si scorgeva il mare. Andai anche io, con altri. Godevo, ai tempi, di una certa inspiegabile autorità, o perlomeno non c’era nessuno che ignorasse le mie opinioni. Uno dei ragazzi aveva un tirapugni di ferro. L’altro inscenava colpi di taekwondo. Ero lì per far sì che non si pestassero. Mettermi in mezzo. Fare pace.

Più che di eccesso di altruismo, si trattava di una mia esigenza ben precisa.
Nel tempo, affinai le tecniche. Nell’ampio consesso di amici del periodo milanese riuscivo quasi sempre a ricomporre le fratture prima che diventassero scomposte, si trattasse di liti tra amici, interne a coppie, tra famiglie, squadre di calcio, centri sociali, gruppi studenteschi. Continuai così, scegliendo una dopo l’altra le occupazioni che meglio si addicevano a questo mio bisogno: la politica, prima, e un locale da gestire, poi. Furono entrambi fallimenti, perlomeno secondo i criteri standard di valutazione.

Nel caso della politica, scoprii presto che il solo pensiero che mi si addicesse era quello anarchico, interessato a una forma d’ordine in un certo senso superiore e, ahimé, decisamente fuori moda; nel caso del locale, era evidente che le mie doti di pacificatore non avrebbero mai attecchito su banche, istituti di credito, fornitori. Continuai in privato, clandestino e per pochi intimi, nella mia certosina attività di riduttore di crepe, stuccatore, incollatore. Ma il tempo cambia molte cose nelle prospettive di una persona e via via che le informazioni, le conoscenze e le esperienze aumentavano, e persino le forme di comunicazione si moltiplicavano, ero costretto a capitolare di fronte all’impossibilità di pacificare tutto questo ben di dio. Si tratta, però, di una capitolazione dolorosa, per quanto consapevole, né potevo accettarla con tanto fatalismo.

Come un viandante che si trovi la strada spezzata in centinaia di tronconi ho scelto allora, d’istinto, grazie a quanto i miei genitori mi insegnarono sulla fantasia, il sentiero sottile che però ai miei occhi appare più che resistente, più degli altri, il filo dal quale potrei sì cadere ma che non si spezzerà.

Scrivere storie è rimasto il mio solo modo di mettere pace. Nella speranza che anche in una sola persona che le leggerà si incollerà qualcosa, si cucirà una crepa.

[Al momento, in attesa dell’uscita del mio secondo romanzo, scrivo in giro e soprattutto qui ]

pamarasca