Mi ha colpito tempo fa questo articolo di Carlo Galli sull’anarchia. Così tanto che ho mandato una lettera al quotidiano, pur sapendo che, subissati di commenti e lettere come sono, difficilmente sarebbe stata pubblicata. Lo stesso commento ho mandato poi ad A rivista anarchica che lo ha pubblicato nel numero attuale, estivo. Dicevo così:

L’articolo di Galli mi stupisce. Si tratta di una lezione scolastica sull’idea anarchica o, meglio, sul comportamento anarchico, che non manca di citare i classici e i mistici del pensiero libertario, a partire da Proudhon e da Tolstoj. Quello che mi sorprende non è l’approccio storico-divulgativo, ma la superficialità con cui Galli liquida una sorta di buonismo anarchico e, soprattutto, il fatto che egli limiti la sua esposizione ad un passato remoto, come se il pensiero libertario e anarchico non si fosse mosso di lì, non abbia vissuto trasformazioni né abbia partecipato all’esistenza politica dell’occidente sino ad oggi.

Il pensiero anarchico non è buonista, ma è faticoso. Esso pretende che l’uomo, individualmente e collettivamente, sia capace di liberarsi dalle dinamiche del potere. In tutte le sue sfaccettature, il pensiero anarchico richiede un lavoro duro, doloroso, difficile, privo di garanzie per il presente e per il prossimo futuro. Una cosa inconcepibile per un’età moderna che pretende la rapidità del gioco causa-effetto ed esilia in lussuose località turistiche ogni riflessione che abbia a che fare con coscienza, inconscio, verità. Non a caso, mi sembra, esso condivide la medesima sorte dell’altra grande reietta della contemporaneità, la psicoanalisi che, sul versante clinico, richiede ugualmente un lavoro difficile, lungo, periglioso e di sicuro senza garanzie di un prossimo futuro.

Ma soprattutto, il pensiero anarchico ha continuato a vivere e a svilupparsi ben oltre i limiti di tempo in cui Galli lo rinchiude, dipingendolo alla stregua di un felino inquieto e perennemente indeciso tra le fusa e un colpo d’artiglio. Oggi esso è anzi più attuale che mai, fatta eccezione per le persone che, in nome di un’anarchismo antico e insensato, rabbioso e narcisista, usano le armi inneggiando all’A cerchiata.

Da pensatori ascrivibili alla sfera libertaria statunitense nasce buona parte dell’idea tecnologica odierna (si pensi a Jennings, o Rheingold e all’esperienza di The Well del 1985) e ben 40 anni fa gli anarchici statunitensi parlavano di un utilizzo del web in chiave di democrazia diretta, strada che conduce dritta all’anarchia intesa come organizzazione che si eserciti senza potere.

Le grandi menti che si stanno occupando delle trasformazioni legate allo sviluppo tecnologico parlano di anarchia e non d’altro quando ventilano la possibilità di uno scivolare dell’individuo nella collettività e viceversa senza strappi né ferite, della possibilità di vivere un’intelligenza ampliata dalla cooperazione delle nostre menti e di una cooperazione che per funzionare abbia bisogno non di limitare l’Altro, ma di permettergli la maggiore libertà possibile di studio, immaginazione e riflessione.

Di anarchia parla anche chi si occupa marginalmente del web, ma lo concepisce come strumento di collaborazione tra piccole realtà autogestite, società che seguono pensieri di decrescita anziché di produzione e consumismo. E di anarchia parlano quanti discutono oggi sulle forme familiari della nostra società, sui loro cambiamenti, sulle prospettive di nuove aggregazioni.

L’anarchia non è mai stata così viva, e alternativa, e possibile. Certo, in chiave globale essa deve misurarsi con società che hanno ben poco a che fare con quelle del principio del XX secolo, anche se continuano ad esistere i Bava Beccaris e i Trotskij, così come d’altronde, i Savonarola. Ma non c’è dubbio che il pensiero anarchico sia oggi pertinente. Non perfetto, non ideale, non condivisibile da tutti, ma pertinente.

Ecco perché stupisce una lezione, sia pure ben fatta, su Proudhon, Bakunin e Tolstoj, pace all’anima loro.