Da oggi, una volta al mese circa, pubblicherò su questo blog alcuni racconti brevi. Li ho scritti negli ultimi 10 anni. Li posto qui così in ordine sparso. Magari non interessa a nessuno. Ma se a qualcuno sì, potete stamparveli, postarli a vostra volta etc. Il primo è questo. Si intitola Proprietà privata, l’ho scritto nel 2002, mi pare.

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Le case in campagna sono così, crescono senza appoggiarsi l’una all’altra. Come le persone di campagna. Sono dolmen più che appartamenti.
Il bambino mi osserva curioso.
Sta sul cancello in legno, bionda sentinella, i jeans sporchi di fango.
–    Ciao
Ho parcheggiato sul ciglio della strada. Lui mi fissava mentre incerto rimanevo dentro, sullo schienale ritto, la mano attaccata alla chiave d’accensione.
–    Ciao
Sono arrivato da lontano. Ai suoi occhi, sono l’uomo che arriva da lontano: non sa ancora se porti bene o male. Non lo so nemmeno io. Probabilmente odio quel bambino.
Ma sono molto stanco.
La casa enorme poggia su un declivio d’erba e ghiaia. Segnata dal vento, nasconde i propri acciacchi sotto un manto d’edera ordinata.
Non avevo bisogno di venire qui. Non avevo voglia né bisogno. Ho guidato tutta la notte, 650 chilometri d’inferno e di autogrill. Sono arrivato sudato e sporco, confuso dalle chiacchiere dell’autoradio, dai bollettini meteo, reportage sul traffico e notiziari sempre uguali. Meriterei un bel sonno.
Prima di venire ho chiamato Giulia.
–    Come va?
–    Va
–    Ricordati di riposare
–    Sì
–    Ma… tutto bene? Cioè, volevo dire…
–    Sì
–    Vorrei essere lì con te… io…
–    Lo so. Già. Non importa.
Deve aver giudicato la telefonata insufficiente. Deve aver pensato di aver messo qualche parola nella casella sbagliata, così poco dopo mi ha scritto un sms.
Ti amo tanto amore mio.

Oh beh, anch’io.

Il bambino è guardingo. Mi avvicino: non devo avere un bell’aspetto, non mi sono rasato né cambiato. Ma ho un abito decente, e la solita aria da tizio di cui ci si può fidare.
–    Sei un amico di papà? Perché hai lasciato la macchina fuori?
Non sono un amico di suo padre. Non conosco suo padre: lo odio, sì, ma non lo conosco.
–    Vuoi entrare?
Ecco cosa hanno i bambini: ti spiazzano. Prendono le decisioni al posto tuo. Volevo entrare? O rimanere fuori? Sostare qualche minuto sul ciglio della strada e poi partire sentendomi un idiota? O sfondare il cancello di legno con la mia saxò e fare irruzione armata nella casa?
Lui ha deciso, sa che voglio entrare. Sa che sono stanco, che alla fine sarò buono. Che quello che mi ci vuole è lui: un bambino.

Sono arrivato all’ospedale alle sette del mattino. Molto lentamente ho cercato posto nel parcheggio, tra centinaia di auto di centinaia di parenti di centinaia di malati. Attraverso il finestrino, sono rimasto imbambolato a fissare l’elicottero sulla piazzola, finché non mi ha destato dal torpore il tizio del parcheggio.
–    Si ferma molto?
–    Dipende
–    Dovrebbe tenere questo
–    Cos’è?
Un biglietto. C’è scritto Sosta per parenti.
–    La prima ora è gratis
–    Ah
Vado dentro.
Mia sorella piange. Mia madre ordina. Mi cugino lacrima. Mio zio tace. Mio padre galleggia.
Galleggia in uno stagno di tubi intricati e piegati come canne dal vento, sul fondo giallognolo del coprimaterasso, acchiappato dalla lenza di una flebo. Un rospo.
D’accordo.
Quanto hai atteso questo istante? Hai sempre detto: quando arriverà dirò la cosa giusta, saprò toccargli il cuore. Troverò una maledetta strada di comunicazione, scaverò un tunnel capace di allacciarci l’uno all’altro e spazzare via i silenzi di decenni.
Mi appoggio al muro, le mani dietro la schiena: come mio zio, e come avrebbe fatto lui.
Ricorro a frasi assurde. Cosa ha detto il medico? Come è successo esattamente? E quando, esattamente? Come se precisare il prima affievolisca il poi.
–    Come stai?
–    Bene
–    Sei stanco?
–    Un po’
Non è un singolo caso il mio: nessun figlio, a paragone, ha fatto niente per il padre. E’ una battaglia persa. Ti attacchi per un po’ al discorso che Sidney Poitier fa in Indovina chi viene a cena, ma dura poco: a Sidney Poitier non può dar torto nessuno, mai. A te, sì.
Vado in apnea. Scrivo un romanzo intero nella mente negli otto minuti in cui resto nella stanza. Un brutto romanzo. Lo fisso, lo guardo, ma sono nel mio pessimo romanzo a ricontare i personaggi. Alex, Claudia, Mario. Alex, Claudia, Mario, Sasha. Lo sfioro con le pupille, non credo se ne accorga. Poi, la scusa.
–    Devo andare a pagare il parcheggio
Vivo di scuse. Di decine di scuse al giorno: potrei aprire una fabbrica di scuse. Scuse per ogni occasione, dalla bocciatura ad un esame al letto fatto male, dal colpevole ritardo a un omicidio. Andrebbero a ruba.
Mia sorella mi abbraccia. Delle poche volte che ci siamo abbracciati, questa è l’unica in cui siamo sobri.
–    Devo andare a pagare il parcheggio – le ripeto.
Annuisce piccola: quasi quasi me la metto in tasca. Esco. Dalla stanza; dalla corsia; dall’atrio, dall’ospedale. Dal parcheggio.

Il bambino mi precede oltre il cancello. Cammina lentamente, attendendomi con discrezione. Fa un freddo cane, il cielo è limpido, il sole carezza i pini e i fili d’erba. E’ un bel bambino, dopotutto. Si muove certo, padroneggia il territorio.
–    Ti piace la mia casa?
Uh. Qui avrei qualcosa da ridire. Siediti un attimo, piccino, che ti spiego. Alla metà degli anni Settanta avere una fabbrica di jeans era come possedere il monopolio dei santini al Vaticano. Mio padre l’ebbe: una piccola, produttiva fabbrica di jeans. Ed ecco cosa fece con i soldi guadagnati: costruì una casa. Una grande casa a due piani in cima a un colle di campagna, con sentieri in ghiaia e prati incolti, una rimessa, alberi assicurati a terra dal fil di ferro un recinto basso e il caminetto. C’era lo stereo con quattro casse: due sopra e due sotto. E un cane.
Ci trasferimmo qui.
Poi i jeans diventano una cosa complicata, le grandi fabbriche si mangiano le piccole, la gente se ne va, il fisco arriva disinteressandosi delle congiunture e della storia e insomma, le solite cose. Fino all’asta.
Ci battemmo, ma il padre del bambino la voleva a tutti i costi. E aveva molti, molti più soldi di mio zio. La casa fu sopravvalutata: da un certo punto di vista andò bene per mio padre. Ma ora che muore, non saprei.
Il bambino mi conduce lungo il prato. Nessuna traccia di adulti. Potrei afferrarlo per la gola, stringerlo a me e rapirlo. Chiedere la casa in riscatto: se volete rivedere vostro figlio voglio quella casa perdio! Ottenerla, vincere la trattativa, forse non ammazzare il bimbo e portare la casa al capezzale di mio padre: ecco, guarda. Guarda cosa ti ho portato.
A cosa servono le parole quando si ha una casa in mano?
– Vuoi giocare?
Il bambino è a due passi da un pallone. Di cuoio.
Sono almeno quindici anni che non tocco un pallone di cuoio.
Ero bravo, una volta. Giocavo portiere nei pulcini, poi nei giovanissimi. E in serie A nel campionato di calcio a 5, prima che cambiassero le regole: si potevano ancora fare i tackle e mi spezzai la tibia. Smisi di giocare.
–    Tirami un rigore – dico
Il bambino fa un’aria soddisfatta. Mette il broncio, arriccia il naso, digrigna i denti e tira.
Alla mia destra. Forte. Molto forte. Che gli danno da mangiare, ai bambini d’oggi?
Mi tuffo.
Mordo l’erba. Mordo la terra. L’erba che è cresciuta sulla terra che mio padre ha comprato per me. Per noi. Minuscoli sassetti schizzano via, mi ricadono sul capo. La terra profuma, una minestra fresca. Sale l’odore. Rotolo.
Il sorcio ha segnato. Non sono riuscito a parare.
–    Un altro – dico mentre vado a rincorrere la palla.
Ora vedo la madre. Il bimbo no: è troppo preso dall’idea di avere un portiere da trafiggere.
La donna esce sulla veranda con le mani avvolte in uno strofinaccio. Come mia nonna. Come mia madre, come un paradigma di tutte le madri del mondo che si affacciano verso i loro figli con milioni di strofinacci nelle mani. Leggo incertezza e paura nei suoi occhi.
Sono uno sconosciuto, gioco con suo figlio. Sono l’uomo che viene da lontano, e di questi tempi non vado molto di moda. Raccolgo il pallone e la guardo. Le faccio un cenno con la mano, sperando di rassicurarla. Salve, sono il fantasma del bambino che giocava qui! Mi riconosce?
Inaspettatamente, mi sorride.
Così mi avvicino, lungo il sentiero di ghiaia che divide la casa dal prato disegnato da mio padre. E impiego molto tempo, un’eternità per raggiungerla. Vorrei essere educato: studio la parte. Dirò: Scusi, sa, non volevo spaventarla, è che una volta io vivevo qui. E’ che questa casa la costruì mio padre, per i suoi figli, che i padri fanno le cose per i figli, anche le case. E ora mio padre è un rospo sul letto d’ospedale. Non immagina i tubi che gli stanno addosso.
Il bambino biondo attende paziente, sa come vanno le cose fra gli adulti: perdono tanto tempo a presentarsi che poi è già ora di scappare.
Finita la ghiaia ci sono le scale. Tre. Le salgo. La donna è immobile, mi guarda. Allora accade.
Ritta davanti a me, nel grembiule azzurro da cucina, le scarpe da casa e lo strofinaccio una sola cosa con le mani, questa sconosciuta è la madre delle madri. La madre del mondo. La mamma del mondo.
E non posso fare a meno, con un pallone di vero cuoio nelle mani, di lasciar andare il capo sul suo corpo, tra la spalla e il collo, nel lieve odore di soffritto, contro il delicato sudore di cucina, cui mescolo le lacrime che non mi aspettavo.