Abbiamo due amici nigeriani a Fermo, che hanno passato le pene dell’inferno e infine ottenuto il permesso di rimanerci, permesso arrivato, come spesso accade, molto dopo il benestare della comunità fermana che li ha accolti con serenità. E Fermo è la città dell’ex assessore provinciale Giuseppe, del premio Volponi, di Ferracuti, di Marrozzini e, per elezione, di Dondero: un vero esercito di impegno e civiltà. A queste persone, che conosco, va la mia vicinanza, perché so per certo che hanno subito una tremenda onta, e che devono sentirsi come quando hai remato tanto, e una corrente assurda ti rimanda al punto di partenza.

Eppure, questo non è il punto di partenza. Non stiamo tornando indietro, questa violenza non è quella di un tempo, e se è vero, come sostiene in un doloroso post di facebook Angelo Ferracuti, che alcuni personaggi dell’informazione e della politica hanno le loro responsabilità, non dobbiamo dimenticare che questi personaggi sono a loro volta sintomi, non cause di un reflusso. Sintomi di un nuovo mondo. Un nuovo mondo colmo di violenza, e povero di parola.

In un saggio di qualche anno fa Raimo e Recalcati descrivono la differenza tra la violenza del passato, comunque legata a un obiettivo (per quanto spaventoso) e dunque strumento di un’idea (si pensi allo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti), e la violenza erratica di oggi, che nasce non da un principio di guerra, ma dalla diffusa incapacità di rinunciare alla violenza:

Se l’ umanizzazione della vita avviene come un attraversamento della violenza che ci abita – della nostra ombra più scura – , essa non può mai cancellare la violenza, ma decidere casomai, ogni volta, per la sua rinuncia. È questo uno dei compiti più difficili che incombe sugli esseri umani: saper rinunciare alla violenza in nome del riconoscimento dell’ Altro come prossimo, come essere singolare.

La violenza, invece, ci sta riempiendo lo stomaco, ma anche le meningi. Le nostre difese si assottigliano, perché si assottiglia il ruolo che diamo alla cultura intesa come rivelazione e al tempo stesso baluardo di fronte al mistero della vita, concetto che in questi giorni è rilanciato dal nuovo saggio di Vargas Llosa:

Credo che sarebbe una tragedia se proprio in un’epoca in cui c’è un progresso tecnologico, scientifico e materiale straordinario, la cultura si trasformasse in puro intrattenimento, in qualcosa di superficiale, lasciando un vuoto che niente può riempire, perché nulla può sostituire la cultura quando si tratta di dare un senso più profondo alla vita

La violenza si intrufola come un ladro nel mondo della parola, approfittando della nostra inadeguatezza di fronte alla tecnologia che possediamo. Così, lo strumento più formidabile di comunità che abbiamo a disposizione diventa luogo di esercizio di una violenza verbale senza limiti: facebook è il gigantesco ingorgo di auto dall’interno delle quali ognuno insulta e bestemmia l’Altro. Per chi esercita la violenza di rete, ecco il grande vantaggio di non vedere le conseguenze delle proprie azioni: posso intaccare la fragilità di una persona ma non ne vedrò mai il dolore di persona. Per questo, devo essere culturalmente preparato al mondo. Ma il mondo corre veloce, oggigiorno, e le cose sono ancora cambiate, in certi casi precipitate, tanto che la vacua conflittualità presente nella rete appare oggi come una formazione continua all’esercizio della violenza, un allenamento, un battimuro che precede il passaggio all’atto da parte dei molti di noi (sempre più) che non riescono a rinunciarvi.

Il conflitto è ciò che fa procedere l’umanità. Questo è evidente. Ma il conflitto è un processo culturale complesso, articolato, dove problemi e possibili soluzioni si raffrontano, generazioni si confrontano, universi si toccano e trasformano. La violenza è stata anche strumento di conflitto, ma non ne è sinonimo, tutt’altro. La violenza – l’atto violento erratico in particolare – è l’esatto contrario del conflitto, è l’ignoranza dell’Altro. È il rifiuto della trasformazione, è l’intollerante frutto di una presunzione di superiorità. E il luogo di esercizio di questa presunzione è, purtroppo, la nostra piazza virtuale.

Le parole di Salvini, gli inni alla purezza di altre figure politiche e mediatiche, le calunnie di certi giornali che puntano a vendere suscitando tensione nei lettori, sono quindi parte integrante di un sistema di violenza cui noi stessi apparteniamo, che si nutre della graduale scomparsa di un concetto di cultura che ha per secoli sostenuto la civiltà di fronte ad una notte buia e tempestosa e che sfrutta una tecnologia evidentemente troppo evoluta per noi.

Oggi, tutto è più semplice. Anche uccidere. Perché noi ci facciamo sempre, e sempre, più semplici.

Pamarasca