Sono passati molti anni. A metà degli anni Ottanta, con gli amici più cari, girovagavamo ogni estate in Scandinavia. Ci piaceva tutto. Il clima, le persone. La birra. Le polpette e le salse sull’insalata. Le alci che appoggiavano la schiena contro le pareti in legno delle case per scaldarsi. Le ragazze che guardavamo goffamente da lontano.

La nostra base era København. Il giro si somigliava sempre: una sosta a Parigi, per bere un Saint Croix du Mont al Coude fou, piccolo bistrot del Marais dove incontrammo l’attore preferito di Carax. Poi al nord.

A Copenaghen si stava come a casa propria, prima di avventurarsi  in Norvegia – direzione Oslo e Bergen – o in Svezia e Finlandia.

Bobo imprecava per l’aria fredda che gli impediva di rollare decentemente le sigarette. Marco si nascondeva tra le barche per scattare foto. Luca ci svegliava in tuta pronto a fare footing. Ci andai anche con Sebastiano, in un appartamento la cui proprietaria non incontrammo mai. Avevamo le chiavi, un biglietto sul tavolo della cucina ci indicava dove lasciare i soldi prima di partire.

Eravamo innamorati della Scandinavia. Imparammo le differenze tra i Paesi. Visitammo luoghi dove eravamo riconoscibili per il colore dei capelli. Alcuni di noi studiarono la lingua all’università. Danese, ché “se sai il danese capisci anche svedese e norvegese”, si diceva. All’esame Inge-Marie, la mia insegnante, mi chiese di pronunciare fragole con panna: rød grød med fløde, se lo dici bene, sei promosso…

Dopo più di 20 anni sono tornato al nord con Monica. Luoghi nuovi. Foche, isole. Torri medievali. La luce del sole alla notte, botteghe vintage, reti di pescatori e fari. Luoghi anche vecchi, come le capitali: Stoccolma e, appunto, Copenaghen. Ma cambiati, e molto: a fronte del nostro atavico immobilismo, lì si sono sforzati in tutto questo tempo di miscelare l’attaccamento alla tradizione con il dinamismo multiculturale odierno. Non ne faccio un panegirico: a volte sono riusciti bene, a volte male.

Ma sempre con i principi guida della tolleranza, del rapporto di non sfruttamento con la natura. Della civiltà. Dell’ecologia come ideale.

E’ stato strano rivedere luoghi che consideravo miei dopo più di venti anni. Sedere sul molo di Nyhavn. Persino la malinconia mi ha colto. Il tempo – il rimpianto. Quelle cose lì.

Sono ancora innamorato della Scandinavia. E il fatto che il male con la M maiuscola, lucido, banale, per nulla pazzo vi abbia germogliato seminando morte, dimostrando come il fanatismo sia crudele di per sé e non in base alla propria provenienza o al credo cui s’appiglia come una medusa, non cambierà il mio modo di vedere: sono questi i luoghi migliori d’Occidente. Da cui ripartire per vivere serenamente nella natura e tra la gente.

Pamarasca