Fai qualcosa che parla di te – un libro, un disco –, riscontri del gradimento e ti confondi. Stanno apprezzando te, ti dici, ma non è così. E’ quel che è nelle parole che hai messo in fila, o negli accordi che sei riuscito a combinare. E’ qualcosa che fai, non quello che sei. Non la totalità delle tue idee ma le sensazioni che nascono dalla tua piccola creazione.
Non sei migliore degli altri. Mai.

E’ una differenza che sfugge, a volte, quella tra il tuo prodotto e te. Ma è fondamentale, perché continuando a guardare se stessi si finisce per perdere la strada.

Mi sono ripetuto come un mantra queste parole perché anche a un nessuno come me viene facile la presunzione, specie se – questo vale per tutti – alimentata dai social network, da fb, da mille altre forme di narcisismo più o meno esasperato.

Così, spesso mi ripeto le cose che non so fare, che sono la maggior parte; quelle che ho rinunciato a fare; quelle che dico “ma come fa questo?”. E soprattutto quelle che vorrei fare. Mi ripeto i fallimenti, che sono le cose che amo di più.

Ma soprattutto guardo gli altri. uomini, cose, animali. Perché amo gli altri, e perché quello che mi piacerebbe raccontare sono loro – attraverso loro poi me, ma si tratta di un effetto, non di un’esigenza.
Le storie, anche quelle inventate, sono conseguenze degli sguardi che chi scrive posa attorno a sé.
C’è sempre gente lì.

Chi scrive storie dovrebbe essere il più umile degli uomini, perché per le sue storie spesso rinuncia alla propria, e il suo vero sogno è di essere nessuno.

p.s.: è lampante che pubblicando questo post dimostro di avere anche molta strada da fare sulla via dell’umiltà 🙂

pamarasca