Sta suscitando un certo interesse nei think tank del centrosinistra, che una volta si chiamavano salotti, la vicenda dell’assessore di Livorno Simone Lenzi. A me pare una vicenda interessante solo per alcuni aspetti. Se volete sapere quali, come direbbe Aranzulla, continuate a leggere.
Lenzi è una figura importante della cultura indipendente italiana. Scrittore, autore del delizioso Mali minori (Laterza, 2016), è noto come autore e voce dei Virginiana Miller, una delle band più intellettuali della scena indie degli anni Novanta. Nel 2019 è stato scelto dal Sindaco Salvetti come assessore alla cultura e ora si è dimesso proprio per le polemiche che hanno seguito alcune sue esternazioni.
A quanto so, Lenzi non ha mai avuto peli sulla lingua. Dopo aver criticato alcune vignette del Fatto quotidiano che riteneva antisioniste, è uscito con dei post ritenuti transfobici e abbastanza sguaiati. Li trovate qui.
Le sue dichiarazioni, così come l’opportunità di farle mentre si è un pubblico amministratore, sono cose che ognuno può valutare da sé. A me interessa il discorso che se ne può fare dopo.
Lenzi scopre un nervo della sinistra e del centrosinistra, che si fa bella con le questioni di genere, ma lo fa secondo una pratica consolidata, quella della difesa delle minoranze. Ma a mio parere non si tratta, come lui sostiene, di essersi “bevuti il cervello”. A mio parere il centrosinistra e la sinistra adottano un atteggiamento goffo e incerto di fronte a un’istanza che proviene in gran parte dalle giovani generazioni e che la classe politica italiana non è pronta a elaborare. Non è pronta a coltivare. Non è pronta a problematizzare.
Non a caso, assistiamo a prese di posizione generiche (non puoi impedire a tizio di fare quella cosa) ma non mi sembra ci siano formulazioni politiche approfondite sull’argomento. In altre parole, al Pride si va, ma per avere un’idea su come governare un cambiamento così epocale, beh, proviamo a rimandare di qualche anno.
Molti, Lenzi compreso, sottovalutano (o temono) il cambiamento, che viene ridotto a poco più di una fisima, di una questione di gusto o di moda, e non viene messo all’ordine del giorno come uno dei bisogni che emergono dalle giovani generazioni. Sì perché i bisogni, a meno che non si voglia reintrodurre il maoismo, provengono da fuori e trovano una traduzione, una elaborazione, una possibile risposta nella politica che li assume come tali. Non il contrario.
Così, mentre una bella quota di sinistra si barrica dietro il “non si può più dire niente” e fa la faccia annoiata perché non intende dotarsi degli strumenti adatti ad affrontare la questione, si crea un movimento che ridefinisce l’emancipazione attraverso nuovi bisogni. Perché, ebbene sì, le cose cambiano nel mondo. Fa parte di questo nuovo mondo la rilettura di classici come Marx e pensatori libertari come Bookchin, e la ricerca di nuove forme di relazione tra individuo e società. Questa forbice si allarga, e le istanze non ascoltate sono tanti colpi inferti a una politica già abbastanza delegittimata.
Il tema del genere, snobbato non solo dalla politica ma, salvo poche eccezioni, anche dall’accademia e dai luoghi di studio e di ricerca dove dovrebbe essere trattato, non è una “fisima” o un capriccio, ma una delle poche istanze attraverso cui le giovani generazioni stanno cercando di uscire dal cerchio magico del pensiero occidentale che, d’altronde, non sa fare altro che far scoppiare guerre e chiudere i confini. Questo, però, significa esattamente che è un bisogno. Significa, cioè, che non è una specie di diritto astrattamente preteso perché ci si sta annoiando, ma che le persone vogliono stare meglio con il loro corpo e con il loro corpo nella società che cambia, e con il loro corpo che cambia la società.
È un bisogno nuovo? Bene. La politica se ne deve prendere carico. Non importa arrivando a quale conclusione, ma deve farlo, a meno di non voler punire con l’indifferenza il tentativo di una generazione di parlare di qualcosa di cui, prima, si parlava proprio poco. Quindi il tentativo di cambiare le cose. Se le istituzioni saranno lente (come sempre, basti pensare che abbiamo atteso Renzi affinché due persone dello stesso sesso potessero “unirsi”), non deve per forza esserlo la politica.
La concezione tradizionale della famiglia e la tradizione patriarcale sono un tema urticante in Occidente, specie quando si scopre che nel mondo esistono decine e decine di modi di fare comunità e avere relazioni. Non si tratta più nemmeno di “minoranze”, anzi sarebbe bello avere una sinistra che lavora sull’argomento e non finge di ignorarlo, e che poi arriva a una quadra, di sicuro limitata e limitante, ma politica e di gruppo, sull’argomento.
In uno dei suoi post, Lenzi commenta una statua di donna con un pene: “alla Biennale di Venezia” scrive “ci tengono a farci sapere che la donna quintessenziale ha la minchia.” Ma quella è un’opera, non una dichiarazione di guerra, e confondere i due livelli è come dire che Lenzi è davvero la Statua della libertà, perché l’ha scritto in una canzone (L’Angelo necessario), o che Modigliani ci voleva dire che le donne sono cieche. Credo che questo dia la misura di quanto si sentano inascoltate le generazioni giovani che il problema se lo pongono, e cercano di metterlo in campo a vari livelli.
Quando morì Michela Murgia, pensai che un limite fosse stato finalmente messo: la sua decisione su come morire, su come scomparire pubblicamente, avrebbe alzato la guardia rispetto a certi temi e avrebbe segnato un nuovo stadio, quello della discussione aperta. Ma a quanto pare, ci siamo già dimenticati.