La superficialità con cui approcciamo il linguaggio nei social media genera ritardi nella nostra capacità di condivisione e di connessione reciproca. “il web ha fatto sì che la cosa più complessa che ci sia al mondo, il linguaggio, si sposasse con la più veloce, l’elettricità” (De Kerchoove). Questo non significa che dobbiamo pretendere semplicità dal primo, o soste dalla seconda.

Ciò che si nota invece è la fatica nel mantenimento di un senso critico e analitico di fronte alla complessità della comunicazione e, in risposta a tale fatica, la scelta di una comunicazione basica, tranchant, che privilegia il giudizio affrettato rispetto alla comprensione. Il linguaggio, cioè, si mette a correre dietro all’elettricità.

Correndo, si spoglia dei vestiti come un atleta imbottito di abiti. Ma un atleta che corra così veloce ha bisogno di abiti, o la rapidità gli porterà via persino la pelle. Via via che si spoglia, il linguaggio (cioè noi) si abbruttisce: diventiamo sempre più cattivi, aggressivi, nella migliore delle ipotesi ci dilettiamo nel sarcasmo, che è la cifra attuale dei social network. Altro che connessione, altro che condivisione. Leggiamo gli altri pensando alla battuta brillante e feroce con la quale possiamo rispondere. Quindi, non li leggiamo affatto.

Vanno per la maggiore hashtag  che evidenziano il gusto dello sberleffo e la presunzione di superiorità: ma lo sberleffo è una gran cosa quando proviene dal basso, come una pasquinata, come la “risata che vi seppellirà” dell’anarchia. Da altre direzioni, è #snob.

Se fosse parlata, la comunicazione sui social network sarebbe incomprensibile, perché battiamo sulla tastiera contemporaneamente, via via che pensiamo alle cose, quasi sempre senza aspettare la risposta altrui – perché ci sono tanti modi per esprimere un concetto e non ce ne vogliamo perdere nemmeno uno, vogliamo vomitare fuori tutto quel che abbiamo – quasi liberarcene con fastidio.

Tutta questa velocità ci rende maniaci. Tutta questa mania vuole più velocità. Questo può portare ovunque: all’intelligenza collettiva di Levy, non credo a quella connettiva di De Kerchove, o altrove. Per ora, porta a una gran maleducazione, e alla perdita di complessità. Come se la complessità, che è la cifra dell’umano, sia un difetto.

Abbiamo impiegato millenni per capire di essere complessi.

Le persone che oggi operano sui social network hanno il dovere morale ed etico di privilegiare il dialogo allo scontro, di costruire un senso civico nuovo, adeguato al mezzo di comunicazione, allo spazio in cui ci si muove. Se si guida, si va sulle ruote e si segue un determinato codice – che è la negoziazione di comportamenti capace di evitarci gli incidenti, se si naviga non si va in acqua con le ruote e si segue un codice diverso.

Internet non è ancora alla portata di tutti. Lo possono usare, soprattutto, le persone che hanno risorse economiche, sociali e, quindi e molto spesso, culturali. E’ loro preciso dovere costruire il codice di una comunicazione complessa, senza cedere alla tentazione dell’abbruttimento. La partita si gioca tutta qui: nella rinuncia a “viver come bruti”, ora che lo si potrebbe fare per davvero, e nella scelta di reale condivisione rispettosa delle reciproche complessità.

Pamarasca