Solo a settembre sale un po’ di nostalgia. Perché a settembre ci si metteva a sistemare. Si cambiava colore. Si avvitavano lampadine, cercavano porte per i cessi e scartavetrava il palco. Allora a settembre sale un po’ di nostalgia perché, non me ne vogliano le persone, l’affetto perduto è quello per l’angolo di cartongesso sgualcito, la maniglia rovesciata della porta, i cannon cannon avvoltolati come fossero gomitoli di lana. Poi non funzionano, la cassa gracchia. E grazie al cazzo, che gracchia.
Dico non me ne vogliano le persone, se la nostalgia è questa. Ma a settembre sotto le dita resuscitano tutte le schegge di legno del palco, e pizzicano, come punture di zanzare rianimate. Così si pensa alla ventola del bancone che, rotta (cosa non era rotto, lì, a fine stagione?), sostituimmo con quella di una mercedes benz: a momenti non decollavano le spine. Ad ogni foro fatto per i chiodi che sopportavano il peso delle foto, quelle sì delle persone. Ai regali assurdi dei rappresentanti. Al dado da stringere sotto il rubinetto che la gente poi lo prende a calci, povero dado.
Ogni anno, il thermos era un cantiere e tanti amici si improvvisavano artigiani. E fino a tarda sera rimanevo lì, solo, con la luce alogena appoggiata a terra: illuminava le mie mani che, goffe, annodavano fili, incassavano tasselli, nascondevano difetti. Fino a tardi. Fino a che, sempre, inevitabilmente, qualcuno passava, hey come va, allora quando aprite, aspetta, vado a prenderti una birra.
grazie
Pamarasca
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