Perché così pochi occidentali ebrei prendono posizione contro la condotta di Israele a Gaza? 

Il Giardino dei Giusti è nato a Gerusalemme nel 1962 ed è dedicato ai “Giusti tra le nazioni”, vale a dire alle persone non ebree che, per salvare persone ebree dalla persecuzione hanno rischiato la propria vita e si sono messe contro le leggi dei propri Stati. Riusciamo a pensare a qualcosa di più bello del Giardino dei Giusti? No. Niente meglio del Giardino dei Giusti ci ricorda “l’assunto di base sia delle tradizioni religiose che dell’illuminismo laico, ovvero che gli esseri umani hanno una natura fondamentalmente morale” (Mishra).

Ho trovato traballante questa natura morale in un testo che ho incrociato cercando una risposta. Si tratta di un articolo che Ugo Volli, grande intellettuale italiano ebreo, scrive il 30 giugno del 2024 su Shalom, periodico della Comunità Ebraica di Roma. In particolare mi hanno colpito due passaggi. Il primo è un passaggio che definirei contabile: “chi sproloquiava di genocidio sulla base dei ‘dati’ forniti da Hamas deve prendere atto che anche il Congresso americano ha stabilito in una mozione che essi non sono credibili; e comunque che anche quei numeri di morti sono fermi ben sotto i 40 mila, almeno per la metà costituiti da truppe terroriste: un livello assolutamente imparagonabile non solo con un genocidio vero, ma anche con le vittime della primavera araba’ ”. Vediamo qui un balzo, da riflessione morale e politica a ragionamento puramente tecnico: il numero sostituisce il nome; la massa sostituisce il soggetto; la burocrazia si mangia l’arbitrio. 

Il secondo passaggio che mi ha colpito è quello in cui Volli sembra ritenere che la democrazia sia sufficiente a garantire la giustezza di qualsiasi comportamento: “A differenza dei suoi nemici Israele è uno stato democratico, in cui le diverse posizioni si confrontano pubblicamente anche in maniera molto dura e non esiste un potere assoluto ma ogni livello istituzionale può e deve esercitare il suo intervento secondo le proprie regole.” Questo secondo passaggio è essenziale: dal momento che si tratta di uno Stato democratico, le azioni decise dal suo governo, democraticamente eletto, sono lecite, perché frutto (scrive Volli) del “consenso collettivo, nelle forme garantite dal consenso e dal sistema parlamentare.” 

La democrazia però è uno strumento, un sistema, probabilmente il migliore che abbiamo per garantire la soglia minima di determinati valori. Trasformarla in valore assoluto ne tradisce la natura: la democrazia non è giusta di per sé, e per questo si articola in pesi e contrappesi, ha un funzionamento complicato, perché sono le sue azioni ad essere giuste, o ingiuste. Per questo la democrazia va vissuta e partecipata, non idolatrata. Per questo bisognerebbe chiedersi cosa si vuol fare con la democrazia, prima che per la democrazia. Trasformarla in oggetto di fede le impedirà di lavorare bene. 

Il passaggio di Volli, però, permette di capire qualcosa in più (anche se non tutto) del silenzio con cui stiamo assordando le prossime generazioni. Secondo Pankaj Mishra, nella seconda metà del Novecento abbiamo condotto una sacrosanta lotta contro il totalitarismo, ma non abbiamo fatto altrettanto contro il razzismo e tanto meno contro il colonialismo. Dunque, se io sono democratico e tu no, vinco comunque io, anche se adotto politiche razziste e colonialiste. Su Gaza, Mishra scrive righe piene di dolore: “Un’intera generazione di giovani occidentali è stata spinta verso la maturità morale dalle parole e dalle azioni (e inazioni) dei suoi rappresentanti più anziani in politica e nel giornalismo, ed è stata costretta a fare i conti, quasi da sola, con atti di ferocia supportati dalle democrazie più ricche e potenti del mondo”. 

Cosa vedono queste e questi giovani? Nella migliore delle ipotesi, adulti che assumono una posizione di impotenza (per calcolo, o per ragioni più esistenziali): tante persone adulte (ebree e non ebree) che hanno un potere intellettuale, mediatico o politico ma non lo utilizzano per reagire a ciò che accade. Che deliberatamente lasciano che le generazioni successive rimangano sgomente. Lacerate. Nella peggiore delle ipotesi, poi, questa scelta di impotenza si trasforma in una presa di posizione che si basa, per forza, sui numeri, sulle tecniche, sulla quantità, perché non può avere fondamenta morali. Queste fondamenta, così, svaniscono giorno dopo giorno, lasciando un vuoto nelle figlie e nei figli di chi tace, destinando il mondo a un sogno folle di efficacia a tutti i costi, un sogno che autorizza soluzioni sino a poco prima ritenute inaccettabili.  

La domanda allora, me ne rendo conto, non è “perché” ma “come è possibile.” Ed è una domanda che angustierà gli adulti nei prossimi decenni, il silenzio sarà incomprensibile a loro come lo è, per molti (ma sempre pochi) oggi.