In una delle poche sere in cui non gioca l’Inter, per un libro che sto cercando di scrivere, ho visto i video disponibili sul web del processo Cusani. In particolare, gli interrogatori del pubblico ministero Antonio Di Pietro al segretario della DC, Arnaldo Forlani, e al segretario del PSI, Bettino Craxi. Senza pretendere di essere completi, vale la pena ricordare di che si tratta. All’inizio degli anni Novanta, viene alla luce una maxi-tangente di 150.000 miliardi di lire che, passando in gran parte attraverso lo IOR (Istituto per le opere religiose del Vaticano) è destinata dal Gruppo Ferruzzi al mondo della politica italiana. La tangente ha lo scopo di arrivare a chiudere l’affare Enimont, cioè la fusione tra la Enichem (pubblica) e la Montedison (privata, del gruppo Ferruzzi appunto). I soldi sono destinati a finanziare alcuni partiti politici, e una parte finisce direttamente nelle tasche di dirigenti, manager e, naturalmente, politici. 

Gli imputati dell’indagine sono appunto i politici, ma nessuno di loro chiede il rito abbreviato. Lo chiede, invece, Sergio Cusani, consulente di spicco del Gruppo Ferruzzi, che fa da intermediario per la tangente. La sua richiesta permette al Pubblico Ministero di chiamare a testimoniare i politici come “imputati di reato connesso.” 

Sul processo Cusani c’è un bel libro di Sandra Cavicchioli, Pier Paolo Giglioli e Giolo Fele, che si intitola Rituali di degradazione-Anatomia del processo Cusani e legge l’evento in chiave sociologica. Infatti, il processo viene trasmesso in tv (da cui i video che ancora si possono vedere sul web) e ha un impatto mediatico senza precedenti. I più importanti politici del Paese si sottomettono a un giudizio collettivo, a una morale civile superiore anche al potere che essi rappresentano. 

Reagiscono, essenzialmente, in due modi. Negando goffamente di sapere che i partiti italiani ricevono finanziamenti illeciti, cosa che anche l’ultimo uomo della strada sapeva: è il caso di Arnaldo Forlani, spaesato e incredulo di essere sottoposto a un qualsivoglia giudizio, gli angoli della bocca che minuto dopo minuto si riempiono di saliva. Oppure trasformando il discorso da giudiziario in politico: è il caso di Umberto Bossi, ma soprattutto di Bettino Craxi. Craxi – grazie anche, a mio modesto parere, di una certa complicità del Pubblico Ministero – riesce a fare del suo interrogatorio una dichiarazione politica, secondo cui: il finanziamento illecito ai partiti era sempre esistito, la legge che lo impediva era una legge ipocrita e veniva regolarmente violata, questo era il prezzo della democrazia. 

Vale la pena ricordare un quadro che, allora, non era chiaro a tutti. Siamo a cavallo tra il 1993 e il 1994. Nel 1992, l’Italia affronta una crisi finanziaria senza precedenti. Una settimana dopo l’assassinio del giudice Falcone e della sua scorta, il 31 maggio 1992, il Governatore della Banca d’Italia riferisce al Governo che è necessario trovare soluzioni al problema del Paese, soluzioni che, a suo dire, vanno date “agendo nelle prossime settimane.” Il Ministro del Bilancio Francesco Reviglio osserva dalla sua finestra i risparmiatori andare a ritirare i propri soldi dalle Banche. Tra il 9 e il 10 luglio del 1992 il governo Amato opera un recupero forzoso dello 0,6% da tutti i depositi bancari. è un intervento clamoroso ma insufficiente: porta 30.000 miliardi, ne servono 90.000. 

A volte, quando si rompe un grande osso del corpo, per permettere la sua calcificazione se ne spezzano altri, minori. Ad esempio, per aggiustare più rapidamente la tibia si frattura deliberatamente il perone. Nel caso dell’Italia, per uscire da una crisi simile a quella che anni dopo metterà in ginocchio la Grecia, si mette mano alla scala mobile d’accordo con i sindacati: il ciclo economico riparte sui profitti, senza adeguare i salari. 

Il 19 luglio del 1992 viene ucciso il magistrato Paolo Borsellino, sotto la casa della madre e della sorella. Con lui muoiono cinque agenti di scorta. Esattamente una settimana dopo, la diciassettenne Rita Atria si getta dal settimo piano di un palazzo romano, in via Amelia 23. Atria aveva deciso di collaborare con Borsellino e si considerava protetta solo da lui. Sua madre la ripudia e distrugge la sua lapide a martellate. Lascia un diario che si dovrebbe studiare a scuola come quello di Anna Frank. Nel frattempo è nata la Lega Nord e impiegati che sembravano innocui assieme ad operai che erano stati comunisti vanno in giro a bastonare i nigeriani che vendono le sigarette fuori dai supermercati. 

L’interrogatorio di Craxi avviene in questo clima e quello che sostiene con un piglio da da duce è quello che il cittadino medio ripete ogni giorno al bar nelle chiacchiere tra amici: ma voi davvero credete che i partiti non prendano, e non abbiano mai preso, soldi dalle grandi industrie, dall’Unione Sovietica, dagli USA? Ma voi veramente pensate che questo sia possibile? 

Come sappiamo, Mani Pulite sancì la fine della Prima Repubblica. Il sistema dei partiti come lo si conosceva venne smantellato. Silvio Berlusconi introdusse rapidamente una seconda frattura, dopo quella finanziaria tra profitto e salario introdotta per evitare il tracollo e che ci portiamo ancora dietro. La frattura, ce lo insegna Pietro Modiano in una bella conferenza, tra contribuenti presunti e contribuenti reali. La sua ascesa politica si deve in buona parte all’idea che chi fa davvero profitto (e dunque crea posti di lavoro) viene tassato ingiustamente nel Paese e che, quindi, abbia diritto a fare di tutto per non pagare le tasse. Questa è la via italiana al neoliberismo, il quale va affermandosi in tutto l’Occidente, inteso, nel migliore dei modi, come un male inevitabile legato al fenomeno della globalizzazione. 

Il profitto diventa più importante della coesione sociale, che aveva caratterizzato le politiche economiche degli Stati europei fino a quel momento. Per meglio dire, si ritiene (o si dice di ritenere) che se inseguiamo tutti il profitto diventeremo automaticamente più coesi. 

Alessandro Carera, docente di Italian Studies e World Cultures and Literatures alla University of Houston, in Texas dedica una profonda riflessione all’ultimo libro del filosofo Rocco Ronchi, che si intitola Populismo/Sovranismo. Una illustre genealogia. Il pezzo di Carera, invece, si intitola: Trump e Musk. In principio è l’azione. Dopo averne raccomandato la lettura, mi concentro su un punto che trovo particolarmente illuminante delle tesi di Ronchi, riprese da Carera. 

La democrazia, si scrive, ha il problema di non generare godimento. Se va bene, genera una soddisfazione. Un piacere estemporaneo. Verrebbe da dire che è noiosa, vale a dire che quando il potere non ha poi tutto questo potere, diventa noioso. Ma l’uomo, scrivono Ronchi e Carera, vive di godimento, non di soddisfazione. E non a caso, aggiungerei io, nella noia al cubo di un sistema democratico altamente burocratizzato, si moltiplicano le possibilità di godimento consumista: il gioco, la pornografia, una serie infinita di droghe, ma anche una partita di calcio al giorno della propria squadra del cuore, l’acquisto compulsivo e via dicendo. Tutte forme, a me pare, di godimento che ci aiutano a sopportare meglio la noia della coesione

Certo questo potere democratico, e magari anche politicamente corretto, resta di una noia mortale. I diritti, poi non ne parliamo. Per questo sembra del tutto normale che a chi li difende e cerca di estenderli si preferisce qualcuno che ci dice che tra due o tre anni giocheremo a padel sul pianeta Marte. 

Mi convinco di questo seguendo la carrellata che, quasi per caso, ho avuto davanti in questi giorni: il libro di Ronchi, il processo Cusani, le riflessioni di Carera, le memorie personali in particolare del periodo berlusconiano. Mi rendo, voglio dire, chiaramente conto del fatto che se preferiamo il godimento alla soddisfazione, e se il godimento, oggi, può essere completamente soddisfatto dal prodotto tecnologico, e se la tecnologia è prodotta e governata da un pugno di persone, allora è del tutto normale che noi vorremo dare a quelle persone tutto il potere necessario affinché loro diano, a noi, la tecnologia che ci serve a godere. Questo, però, non è compatibile con quella rottura di palle che è la democrazia. Che probabilmente per questo finirà. 

A meno che qualcuno, oltre che difenderla, decida di immaginare un orizzonte diverso dal padel su Marte, ma che un po’, un pochino almeno, ci faccia sognare di godere.