Ieri, il sindaco Daniele Silvetti ha presentato in consiglio comunale gli indirizzi per i prossimi 5 anni di suo governo. [dato che vota davvero poca gente, faccio una spiega iniziale, chi sa certe cose la può saltare: il Consiglio Comunale è un po’ l’equivalente del Parlamento ed è formato dai più votati alle elezioni, sindaco compreso. La Giunta comunale è, invece, il gruppo di assessori scelti (in teoria) dal Sindaco, ed equivale su scala locale al Consiglio dei Ministri, per capirci, con la differenza sostanziale che qui non si fanno le Leggi ma si gestisce una città. Quindi, ad esempio: Bertini da noi, Sangiuliano da loro.]
Dicevo che ieri il Sindaco ha presentato i suoi indirizzi di governo, parlando di Grande Ancona. Per chi vuole vedere il suo e gli altri interventi, la registrazione è qui.
A leggere gli indirizzi, le politiche culturali di Big Ancona possono essere sintetizzate in tre linee: a) veicolare supinamente le iniziative regionali senza metterci bocca; b) perdere i finanziamenti esterni; c) azzerare il terzo settore culturale cittadino.
Prima di continuare, una precisazione che mi sta a cuore: negli anni, ho spesso criticato la gestione del settore culturale da parte della Regione di centrosinistra. Ad esempio, ho sostenuto l’ambiguità e inutilità del Consorzio Marche Spettacolo, cercato di arginare alcune politiche della Fondazione Marche Cultura, contestato l’assenza di un piano industriale della cultura in una regione con 1,5 milioni di abitanti. Si sia d’accordo o meno con me sui singoli casi, credo che questo testimoni il mio basso livello di faziosità quando dico che peggio di così non si potrebbe andare.
- Punto a: servilismo supino alle indicazioni regionali. Il festival del Cinema anni Ottanta diretto da Enrico Vanzina diventa la bandiera culturale della città e plana sulle attività radicate nel territorio come un’astronave scassata su un bosco di pioppi. Forse (perché guardate che costano tanto tanto) è affiancato da mostre a marchio Sgarbi che ovunque sono sassi nel deserto, non generando effetti culturalmente rilevanti nel medio e lungo termine, spesso nemmeno nel breve. Beninteso, sono scelte e l’amministrazione ha tutto il diritto di farle. Ma lo fa da passacarte (e passasoldi) senza nemmeno impegnarsi un po’. Questo è il dato più rilevante.
- Punto b: perdere risorse per la cultura. Gli indirizzi di governo parlano di una strana riorganizzazione del settore. I più esperti, leggendoli, capiscono subito che sarebbe una tragedia, perché “chiudere le realtà esistenti facendole confluire in un unico soggetto” significa automaticamente perdere sia il finanziamento ministeriale che spetta a ognuna di quelle realtà (stiamo parlando di circa 1.200.000 euro l’anno) sia le entrate prodotte da bandi vinti e sponsor (stiamo parlando di 1.980.000 euro dal 2016 a oggi solo alla Mole, ricaduti su tutte le attività). Il testo degli indirizzi su questo punto è anche più equivoco (ad esempio parla di “fondazioni” cittadine quando ne abbiamo solo una, di fondazione) e testimonia una visione da Little Ancona, come a dire che qui basta un solo soggetto come basterebbe a Cantalupo (senza offesa per Cantalupo), come se la cultura non vivesse per gemmazioni e diversità. Viene il dubbio che questo serva a scaricare le responsabilità delle scelte, e a veicolare meglio la programmazione regionale su Ancona, declassata a sede incapace di ragionare con la sua testa.
- Punto c: azzerare il terzo settore culturale cittadino. Come ho detto, chi vince le elezioni sceglie, ed è normale che decida di finanziare più o meno dei progetti, di annullare dei festival, di fare una mostra anziché un’altra. Quello che si chiede, però, è che lo si faccia con cognizione di causa, cioè trattando con rispetto il paesaggio culturale che ci si trova davanti, e poi motivando le scelte. Invece, i punti a) e b) significano esattamente l’opposto: non c’è curiosità, non c’è interesse, di fatto non c’è passione per la cultura in chi si occupa della cultura.
La passione è determinante però. Lo ha detto bene Ida intervenendo in consiglio comunale. Lo è perché le risorse di partenza per la cultura sono sempre poche nei Comuni, e bisogna cercarle. E per cercarle bisogna innamorarsi dei progetti assieme a chi li fa, inventarsi strade, gettare il cuore oltre l’ostacolo. Poi, a volte va bene altre no. L’alternativa è farsi bastare quel che si ha, che è un atteggiamento anti-culturale.
A me pare che il settore, invece, sia stato appaltato politicamente. In Italia accade, a volte, che si prenda un settore di cui si ha poca considerazione e lo si dia in pasto a qualcuno (un partito, un personaggio) che, altrove, potrebbe dare più fastidio. Di solito questo settore è quello culturale. Infatti, in Italia, la cultura è molto utile quando si fa propaganda, un po’ meno quando la si deve fare per davvero. In fondo, se tutto è cultura, come ci dicono sempre, a che serve farla? C’è già.