Nel 1990 c’erano i Mondiali. La partita inaugurale era Argentina- Camerun. Quel giorno, ci fu una grande manifestazione. Contro i Mondiali, in favore dei centri sociali, in spregio a una Milano (un’Italia) che iniziava a vantarsi del proprio putridume. Fu, se non sbaglio, la prima volta in cui apparvero le tute bianche dei leoncavallini.
I leoncavallini, appunto, erano nel mirino del prefetto. Si sapeva. Si parlava, tra di noi, di una presunta lezione che gli si voleva dare.
La manifestazione fu tesissima. Le forze dell’ordine se ne stavano in disparte e, per questo, sembravano più minacciose. Era pieno di studenti inesperti: eravamo nei dintorni delle occupazioni. La pantera. Fu tesissima ma senza scontri. E alla fine ci sciogliemmo.
Molti militanti e studenti, soprattutto dell’accademia, scesero le scale della stazione metropolitana di De Angelis. C’erano i carabinieri accanto alle macchine di distribuzione dei biglietti. Tenevano i fucili in spalla rovesciati.
– perché tengono i fucili in spalla rovesciati? – chiese qualcuno accanto a me.
Del Ponte della Ghisolfa, il circolo anarchico, eravamo in sei o sette mi pare, in metropolitana. Ci guardammo e scendemmo le scale in fretta.
Sbagliammo senso: tutti gli altri erano scesi dalla parte opposta, in direzione centro. Per questo, per così dire, ci salvammo.
Tutti gli altri: decine di studenti, e uno sparuto manipolo di leoncavallini ancora nelle tute bianche. Amici.
La prima carica fu immediata e improvvisa. Gli agenti scesero le scale, riempirono di mazzate e calci di fucile in bocca tutti e risalirono: blitzkrieg.
Noi guardavamo dalla parte opposta dei binari. Arrivò il nostro treno. Era pieno di gente. Salimmo e continuammo a guardare attraverso il finestrino, mentre uno di noi ebbe la prontezza di riflessi di staccare la corrente dei binari usando la leva d’emergenza.
Riconoscemmo i ragazzi del Leoncavallo. Erano esperti, per fortuna. Dopo qualche minuto di sgomento riuscirono a radunare gli studenti. Topi terrorizzati che correvano qua e là senza una via di fuga. Con un braccio rotto, il sangue su una tempia, le lacrime. Li circondarono formandogli un quadrato attorno. Gli agenti scesero di nuovo. Picchiarono. La maggior parte dei colpi si infranse sul muro (ma muro non era) delle tute bianche. Qualche studente si impaurì fuggendo dal quadrato e fu colpito al capo. Gli agenti risalirono. Scesero di nuovo. Picchiarono. Risalirono.
Dal treno in cui ci trovavamo le persone “normali” gridavano Basta!! Li ammazzate!! Noi battevamo i pugni contro il finestrino. Piangevamo.
Ci fecero uscire. Chiusero la stazione.
Dissi a una amica del Ponte:
– Adesso ci massacrano di botte
Uscimmo. Fuori dalla metro pareva il Cile. Le forche caudine: un imbuto di agenti armati di manganelli dentro il quale ci facevano passare. Erano pronti a spaccarci le teste. Senza dubbio.
Ma erano usciti anche i passeggeri del treno: vecchiette con le buste della spesa, coppie a passeggio. Dissero:
– Cosa volete fare?
– Li avete massacrati
Dissero:
– Basta
– Lasciateli andare
Ci fu un ordine. L’imbuto si aprì. Un compagno del Ponte che era con me si sfogò:
– Nemmeno nei Settanta ho visto questa premeditazione!
La mattina dopo scendo al bar. Prendo un caffè e cerco le notizie su Milano nel Corriere della Sera.
C’è una colonna di trenta righe. Parla di “tafferugli tra gli estremisti del corteo e le forze dell’ordine alla fine della manifestazione, in metropolitana”. Torno a casa.
Vomito.
Ora, è tutto diverso. Ci sono i video, le fotocamere, i cellulari, twitter, facebook, i blog, i siti: quello che successe sotto la stazione della metropolitana in qualche modo verrebbe fuori. Si saprebbe. Si vedrebbe.
Che razza di arma hanno questi ragazzi oggi. Sanno usare il web meglio del potere. Meglio delle forze dell’ordine. Meglio di tutti. Possono avvertirsi, comunicare, filmare, fotografare, denunciare.
Ma non è così semplice.
Sembra che un video significhi così tanto. Ma è vero? All’indomani della manifestazione romana, il video dei poliziotti che pestano ragazzi inermi a terra ha girato eccome sul web.
Eppure tutti i media parlano di un ragazzo che ha aggredito con il casco un altro manifestante. Robe che succedono una sera sì e una no fuori da un locale.
Tanta strada c’è da fare perché questa comunicazione random diventi parte di una strategia di lotta. Non sia manipolata, ma utilizzata a fondo. Rimanga random, ma non risulti isolata.
E però, che razza di arma.
Questa sì, concede una speranza a tutti noi sfigati che vomitavamo la mattina perché nessuno, nessuno sapeva (né poteva sapere, né avrebbe saputo) quel che era successo veramente.
Imparando pian piano ad usarla, questi ragazzi, questi nuovi movimenti possono fare davvero sfracelli, trovare un sentiero di protesta nuovo. Essere la strada di se stessi. Arrivare a costruire le fondamenta di una nuova forma di vivere sociale che sostituisca la democrazia rappresentativa e agonizzante del palazzo.
Riuscire, insomma, ad avere un sogno, e non solo una bestiale, sacrosanta incazzatura.
Pamarasca
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