Aleggiava una paura nera ai tempi in cui Kerouac scrisse On the road. Era l’atomica che premeva come un coperchio troppo stretto sulla pentola del consumismo. La prima, reale, concreta prova che l’uomo era in grado di cancellare l’umanità. Non di uccidere un altro uomo. Non di sterminare un esercito. Di distruggere l’intera specie presente sul pianeta. La fine della prosecuzione. La fine e basta. Dell’uomo, e della parola.
Nella terra che Thoreau aveva definito una nuova possibilità, il Nord America, grande, ricca, popolata da animali raramente feroci, dai paesaggi ampi e illimitati, resisteva ancora, dopo Hiroshima, un disperato senso di speranza. L’idea che andare potesse significare qualcosa. Che il moto di per sé potesse costruire un’alternativa alla deflagrazione prossima dell’umanità. Il mito dell’Ovest!

Ma la scoperta in Kerouac aveva un senso interiore e quasi religioso, in ogni caso venato dall’influenza della madre. In On the road il viaggio raccontato è quello di un ritorno dalla zia – il simbolo della famiglia e dell’infanzia. Nella vita di Kerouac i continui vagabondaggi lo portarono a ritroso, fino a Lowell, la sua città natale, dove il terzo matrimonio pare il disperato atto di chi desidera ricostituire quel che s’è da sempre perso.
Quello che resta del pellegrinaggio del vagabondo sono le epifanie di paesaggi splendidi ed orrendi, di musiche e figure umane, e sopra ogni cosa l’amicizia. Il segno tangibile, solido, incarnato dell’umanità messo di fronte, come esorcismo, alla minaccia altrettanto concreta – più concreta – dell’atomica come autodistruzione del genere umano. Kerouac veniva da una famiglia di fortissime tradizioni cristiane. Il fratello, che ricorda in quello che ritengo il suo libro più bello, Visioni di Gerard, era morto ancora bambino. Il legame era la sua ossessione. L’amicizia la sua salvezza. Il mondo qualcosa da e dentro cui fuggire nello stesso tempo.

Oggi la prima pagina de La Repubblica è una serie di titoli sui mali dei nostri tempi. Con anni di ritardo rispetto al libro di Giulio Cavalli che denunciava infiltrazioni della ndrangheta in Regione Lombardia viene fuori che, cavolo!, c’è la ndrangheta in Regione Lombardia. La crisi, ma soprattutto una corruzione malata e insensata, messa in atto da chi nemmeno sa godersi quel che ruba, la corsa al denaro che viene baciato negli spogliatoi di una squadra di calcio quasi segno divino, l’indifferenza delle persone impegnate in un consumo affrettato e scriteriato di fronte a tali vergognosi esempi: cammino sfogliando ed è un voltastomaco. Poco più sotto, un’inserzione pubblicitaria.

In uscita il 13 ottobre.
On the Road.
Il film.

Una manovra commerciale, una produzione colossale. Attori di gomma. Ma anche un segno. L’uscita di un film tratto dal romanzo di Kerouac è la – patinata e debole, perché noi siamo patinati e deboli – risposta ad un nuovo nulla atomico meno devastante ma altrettanto armato di sterminio. Ancora una volta, in una pulsione autodistruttiva irrefrenabile, l’umanità sta distruggendo se stessa colpendo duro sulle proprie fondamenta. La voragine consumistica ha ridotto l’esistenza collettiva a un margine, un orlo. In mezzo il vuoto.

E allora andate. Saltate su una macchina, andate. Non troverete nuove terre, ma forse troverete nuovi amici, insieme ai quali innescare valori nuovi e inesplorati – in fretta partite, vivete del viaggio, dentro e fuori di voi. Non c’è bisogno nemmeno di droghe, drogato com’è il mondo. Ma di frontiere. Paesaggi. Domani.
Il sogno di Kerouac era il Grande romanzo americano. Voleva essere il Proust d’oltreoceano. Un sogno, certo. Quello che serviva.

Pamarasca